Mi piace ritrarre quei piloti e quegli uomini che hanno fatto del motociclismo il tempio nel quale consacrare una vita intera; perché voglio conoscere, sempre meglio, la genesi della nostra passione. Questa è la storia di Carlo Prati, uno che la grinta della staccata al limite la mette in ogni singolo giorno. Sono andato a casa sua, per farmi raccontare storie di motori, di indiani d’America e di fatalità che possono cambiare il corso di una vita.

Classe 1953, Prati nasce e cresce a Stradella, in quell’Oltrepò Pavese in cui tira già l’aria della vicina Emilia, aria inasprita dai fumi di miscela. È figlio di salumieri, gente di bottega dedita al lavoro. Dal padre e dallo zio eredita la passione: solo quella per le moto, però, perché alle prime esperienze dietro al banco del negozio si recise diagonalmente la punta di due dita, rendendo chiaro anche all’apprensiva madre che forse il mestiere giusto per lui era un altro…

IL MESTIERE DEL PILOTA

L’8 luglio 1973 si presentò così a Monza accompagnato dallo zio, con una Laverda 750 SFC, per partecipare alla 500 chilometri dedicata alle moto stock che si sarebbe dovuta svolgere a partire dal pomeriggio. «A quel tempo si gareggiava solo se maggiorenni, ma io non lo ero ancora, perché l’età era fissata a 21 anni. Dunque
falsificammo il nullaosta per potermi iscrivere. Sfortunatamente però, quella competizione non ebbe mai luogo: in conseguenza all’incidente occorso a Galtrucco, Chionio e Colombini durante la gara di Campionato Italiano Junior sospesero tutte le attività».

Si rifece poco tempo dopo, alla 500 chilometri di Vallelunga, sempre in sella alla SFC 750. Il battesimo del circuito era ormai avvenuto e per la stagione ’74/’75 Carlo decise di cimentarsi nel Campionato Italiano Juniores, ritornando così a cilindrate più modeste, in sella alla Harley-Davidson 250cc curata dalla squadra del conterraneo Ennio Togni. «Mi piazzavo bene, però cadevo anche spesso. Ero un pilota da “o tutto o niente”, rischiavo tanto per cercare il limite e consideravo quello l’unico modo per potersi mettere in luce». Così passarono tre stagioni di gavetta, prima del salto verso cubature più impegnative: nel 1978 la squadra dei fratelli Segoni, tecnici e telaisti fiorentini, mise a disposizione di Prati la propria Suzuki 500cc. Come pilota, per Carlo quella fu la stagione della svolta. Finisce spesso a podio, aggiudicandosi l’accesso alla finale del Campionato Italiano Junior in programma al Mugello.

In quella gara diede il tutto per tutto e si ritrovò presto al comando, ma nel corso dell’ultimo giro un cilindro lo tradì, consegnandolo alla rimonta degli avversari. Chiuse secondo, laureandosi vicecampione italiano della classe junior; ma l’obiettivo era comunque centrato, perché per lo stradellino si spalancarono le porte tra i professionisti e per la stagione successiva ottenne la RG 500, con il telaio sperimentale di Segoni progettato originariamente per Gallina. Con questa moto ruppe il ghiaccio della top class piazzandosi stabilmente nei primi dieci. «Nel 1980 sono salito in sella alla Suzuki RGB 500 affidata alle cure dei piacentini Rossi e Paganini. Iniziai a cercare nuovi sponsor e a curare sempre più la mia forma fisica. Il livello si alzava e per competere al meglio la strada del pilota un po’ suonato e vizioso non era certo la migliore. Ricordo anche Virginio Ferrari come buon esempio di cura assidua della propria forma».

Quell’anno fu per Prati, probabilmente, il più denso della sua vita tanto sul piano umano quanto su quello sportivo. Sposò la propria compagna, che l’8 maggio diede alla luce la loro unica figlia. Tre giorni dopo, il ventisettenne Carlo si trovò al Santa Monica di Misano Adriatico sulla griglia di partenza della tappa Mondiale.

 

 

 

“AL MUNDIAL” – TRA VELOCITÀ E DESTINO

«Ciò che più mi impressionò fu il cambio di ritmo. I tempi di vertice del Campionato Italiano erano appena sufficienti a qualificarsi per il Mondiale, ma la stranezza vera fu nel cambio di passo che inconsciamente mi trovai ad avere, perché anche il solo vedere gente come Lucky, Roberts, Sheene o Rossi costringeva in qualche modo a
spingere come non avrei potuto fare prima. Questione di percezione dei limiti, più che di studio delle traiettorie. Mi qualificai ventinovesimo e in gara persi la moto all’ultimo giro mentre mi trovavo in nona posizione». Ma cosa significa per un pilota privato scendere nell’arena con i campioni del proprio tempo? «Giocarsela. Era tutto molto meno definito rispetto al motomondiale moderno: ricordo di Saarinen che pur da ufficiale portava le moto in pista con il proprio gancio traino. Pensa che c’erano ben tre fornitori di gomme a sparigliare un po’ le carte e tra gomme da pioggia e slick, la soluzione intermedia era “l’intagliata a mano”. Anche se già all’epoca la “gomma giusta” era riservata solo ai top rider, te la dovevi prima sudare infrangendo tempi e limiti con mescole pressoché stradali».

E così Prati fece ritorno a casa con tanta adrenalina, tantissimi acciacchi e una prognosi medica che gli vietò le competizioni per sei mesi. Poco più di trenta giorni dopo, cocciutamente, tentò la qualifica a Zolder, in Belgio. Si ritirò per via dei troppi dolori.

Fu invece diverso, brutalmente diverso, il suo terzo tentativo mondiale: il 24 agosto 1980 si svolse al Nurburgring il GP della Germania Ovest, 6 giri da percorrere lungo 23 Km di circuito. «In quell’occasione mi qualificai a ridosso della ventesima posizione. Non avevo mai girato in quel circuito e avevamo a disposizione appena un’ora di prove libere. Fu come tuffarsi in un toboga composto da un nastro d’asfalto e barriere di paglia. In gara ci trovammo in quattro all’ultimo giro a darci battaglia per la dodicesima posizione, io stavo guidando il gruppo. Montavamo gomme slick quando a un certo punto iniziò a piovere su un tratto della pista. In fondo a un rettilineo da percorrere a 250 Km/h ho scalato una marcia per affrontare un curvone veloce. Sono scivolato, lanciato contro le protezioni. Un istante dopo la mia stessa moto mi ha colpito»

Cosa ricordi di quell’episodio? «Ho ricordi confusi perché da subito persi i sensi e quando mi svegliai, seppure si trattò di risvegli intermittenti, trovai il dott.Costa ad assistermi. Un pilota dopo una forte caduta cerca per prima cosa di muovere ogni parte del proprio corpo, per accertarsi che tutto sia a posto. Ero confuso, provai a muovere le gambe e persi di nuovo i sensi». Così Carlo venne trasportato d’urgenza in elisoccorso all’ospedale di Colonia, all’epoca il migliore d’Europa per la cura dei problemi spinali e neurologici, dove rimase in stato di coma per un lungo periodo. Al risveglio, venne informato dai medici delle gravi lesioni subite. «Con un atteggiamento molto meno “protezionista” rispetto quello a cui siamo abituati negli ospedali in Italia, mi dissero in maniera cruda e precisa come stavano le cose appena ripresi totale coscienza: una lesione della decima e dodicesima vertebra mi avrebbe impedito di tornare a camminare. A quell’epoca un infortunio del genere era molto più difficile da metabolizzare mentalmente, gli ostacoli clinici, fisici e sociali erano davvero grandi. Mi dissero che avevo una scelta da fare: vivere costruendomi una vita su misura oppure lasciarmi andare. Così scelsi di vivere, circondandomi solo di persone che ritengo giuste. Non mi sono mai lamentato».

IL RICHIAMO ALLE CORSE COME TEAM MANAGER

Già dalla stagione successiva, quella 1981/1982, Prati fece ritorno alle gare. Perché quello era il suo mondo e quella la sua vita, semplicemente, verrebbe quasi da dire. Fondò un team proprio e intuì presto l’imminente ruolo che avrebbero assunto gli sponsor “non tecnici” all’interno del motomondiale, e fu così che venne allestito il primo motorhome del circus propriamente detto, con 12 metri di lunghezza sui quali far campeggiare esternamente i loghi dei partner paganti; all’interno una zona abitabile e una seconda zona adibita a officina, equipaggiata con ferramenta, attrezzatura da rettifica e assemblaggio motori. Affida la guida delle proprie RGB 500 a Marco Papa per l’Europeo e a Walter Migliorati e Handreas Hoffman per il Mondiale. «Ricordo Hoffman come un pilota velocissimo, preciso, serio e con la mano del collaudatore. Una sola cosa gli era di impedimento, l’altezza. Iniziava il motociclismo moderno, quello dei fantini».

Nel 1983 per Prati ci fu il salto manageriale, perché Honda Italia affidò al velocista oltrepadano la direzione di un reparto corse, con il quale avrebbe seguito Maurizio Massimiani, già pilota per il marchio dell’ala, sulla ex-ufficiale di Lucchinelli. La stagione vedrà però l’infortunio del pilota romano e così, in occasione della 200 Miglia di Imola, Prati affidò la RS 500 R all’amico Guido Paci, già messosi in mostra durante il Gp di Francia nella settimana precedente. Ma quel giorno la sciagura fece nido alla Curva Villeneuve, tradendo il velocissimo Paci in quinta posizione. Carlo perse un amico e un pilota, senza mai digerire il freddo approccio nipponico di Honda a tutta la faccenda. Se ne andò, mollando tutto nel mezzo della stagione.

IL SOGNO F1 E L’ADDIO AL MOTORSPORT

Passò allora al mondo delle auto, gestendo una scuderia di F3000 insieme all’amico Cesare Gariboldi, per poi avviare nel 1990 una collaborazione diretta con la Leyton House, team inglese di F1, con Capelli e Gugelmin alle guide. Il progetto di fondare un proprio team di F1, insieme a Pegoiani e Gariboldi, naufragò in seguito all’improvvisa e sfortunata scomparsa di quest’ultimo, proprio quando il tutto era a un passo dal compiersi. Terminò qui il matrimonio di Prati con il motorsport agonistico.

Da allora Carlo si dedica alla progettazione di dispositivi speciali per l’assistenza dei disabili che vedono l’uso di materiali superleggeri derivati, indovinate un po’, dal mondo delle competizioni. Ha fatto ritorno al manubrio, studiando e facendo assemblare un trike carenato con motore di derivazione Honda, con il quale pennella le strade morbide dell’alta Val Tidone. Ogni giorno, si attiene alla morale di quei pellerossa che ha assiduamente studiato e fatto propria, di cui tanto si innamorò da bambino grazie ai film western proiettati nei cinema all’aperto. «Questo è un lungo capitolo a sé. Ho sempre coniugato uno stile di vita occidentale a un’etica privata propria di quelle popolazioni, che ammiro. Spiritualmente sento di appartenere a quei Sioux del Dakota che un giorno, anni indietro, ho potuto incontrare. Il nome che mi diedero significa “Due aquile che ballano”». Come due sono in fondo le vite di quest’uomo, che ugualmente forti ballano.

(rivisitazione del mio pezzo già pubblicato sulla rivista Ferro Magazine)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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